Ricorso  della  regione  Campania,  in persona del presidente della
 giunta regionale avv. Ferdinando Clemente di  San  Luca,  autorizzato
 con  delibera  della  giunta  regionale  n.  295 del 26 gennaio 1993,
 rappresentato e difeso dall'avv. prof. Valerio Onida, con elezione di
 domicilio presso l'avv. Gualtiero Rueca, in Roma, largo della Gancia,
 1, come da delega a margine del presente atto, contro  il  Presidente
 del  Consiglio  dei  Ministri  pro-tempore,  per  la dichiarazione di
 illegittimita' costituzionale degli artt. 1, 3, 4, 6, 7, 8,  10,  12,
 13, 14 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, pubblicato nella Gazzetta
 Ufficiale  n.  305  del 30 dicembre 1992, concernente "riordino della
 disciplina in materia sanitaria, a norma dell'art. 1 della  legge  23
 ottobre 1992, n. 421".
    1.  - L'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, ha delegato il
 Governo a dettare una nuova disciplina della sanita' "ai  fini  della
 ottimale   e  razionale  utilizzazione  delle  risorse  destinate  al
 Servizio  sanitario  nazionale,  del  perseguimento  della   migliore
 efficienza   del  medesimo  a  garanzia  del  cittadino,  di  equita'
 distributiva  e  del  contenimento   della   spesa   sanitaria,   con
 riferimento  all'art.  32  della  Costituzione, assicurando a tutti i
 cittadini il libero accesso e la gratuita' del servizio nei limiti  e
 secondo i criteri previsti dalla normativa vigente in materia".
   In  particolare, fra i principi e i criteri direttivi stabiliti per
 l'esercizio della delega, la lett. c) del  primo  comma  dell'art.  1
 predetto  imponeva  di  "completare  il  riordinamento  del  Servizio
 sanitario  nazionale,  attribuendo  alle  regioni  e  alle   province
 autonome  la competenza in materia di programmazione e organizzazione
 dell'assistenza sanitaria e riservando allo Stato, in questa materia,
 la programmazione sanitaria nazionale, la determinazione  di  livelli
 uniformi  di assistenza sanitaria e delle relative quote capitarie di
 finanziamento, secondo misure tese  al  riequilibrio  territoriale  e
 strumentale, d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra
 lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano".
    Altri  piu'  semplici  principi  e  criteri direttivi sono dettati
 nelle altre lettere dello stesso comma, cui avremo occasione di  fare
 analitico riferimento piu' avanti.
    La  delega  in  questione e' stata esercitata con l'emanazione del
 d.lgs. 30 dicembre  1992,  n.  502,  intitolato  al  "riordino  della
 disciplina in materia sanitaria".
    Tale provvedimento, varato dal Goveno con una certa frettolosita',
 in  anticipo  sullo  stesso  breve  termine di novanta giorni fissato
 dalla legge di delega, per piu' aspetti "tradisce"  pero'  i  criteri
 della  delega,  in  particolare  occupando spazi che avrebbero dovuto
 rimanere riservati alle regioni, avocando a organi centrali compiti e
 poteri ulteriori rispetto  a  quelli  legittimamente  riservati  allo
 Stato,  e  realizzando  un complessivo disegno del Servizio sanitario
 nazionale alquanto squilibrato, nel senso  che  ad  una  invadente  e
 soffocante  presenza  dello  Stato  nella  disciplina  e nel concreto
 governo di tutti gli aspetti del servizio fa riscontro la pretesa  di
 rovesciare  su bilanci regionali la piena responsabilita' finanziaria
 per i costi del servizio stesso; senza stabilire  nemmeno  criteri  e
 parametri del finanziamento statale.
    Varie  disposizioni  del  decreto  legislativo appaiono lesive sia
 degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, sia dell'oggetto e dei
 principi e criteri direttivi della delega e dunque dell'art. 76 della
 Costituzione, violazioni queste ultime ridondanti  a  loro  volta  in
 lesioni dell'autonomia regionale.
    2.  -  L'art.  1,  primo  comma, della legge di delega n. 421/1992
 stabiliva che nella materia sanitaria i decreti legislativi  delegati
 fossero  emanati "sentita la conferenza permanente per i rapporti fra
 lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano".
    Viceversa  il  decreto  n.  502 risulta essere stato emanato senza
 acquisire il parere della conferenza, e comunque di tale  parere  non
 si  da'  in  esso  alcun conto: infatti nelle premesse del decreto si
 menziona solo il parere delle commissioni permanenti delle Camere.
    Gia' per questo preliminare motivo, che  comporta  una  violazione
 dell'art.    76    della    Costituzione,   ridondante   in   lesione
 dell'autonomia, il decreto  in  questione  appare  costituzionalmente
 illegittimo.
    3.   -   L'art.  1  del  decreto  stabilisce  che  "gli  obiettivi
 fondamentali  di  prevenzione,  cura  e  riabilitazione  e  le  linee
 generali  di  indirizzo  del  Servizio  sanitario nazionale nonche' i
 livelli di assistenza da assicurare in condizioni di uniformita'  sul
 territorio   nazionale   sono   stabiliti   con  il  piano  sanitario
 nazionale",  "in   coerenza   'fra   l'altro'   con   l'entita'   del
 finanziamento  assicurato  al  Servizio  sanitario  nazionale" (primo
 comma). Piu' specificamente e'  previsto  che  il  piano  indica  fra
 l'altro  "i  livelli  uniformi di assistenza sanitaria da individuare
 sulla  base  anche  di  dati  epidemiologici  e   clinici,   con   la
 specificazione  delle  prestazioni  da garantire a tutti i cittadini,
 rapportati al volume delle risorse  a  disposizione"  (quarto  comma,
 lett. b)).
    Si  attua  dunque, a questo riguardo, una totale "delegificazione"
 della disciplina delle prestazioni garantite a tutti i cittadini  dal
 Servizio  sanitario  nazionale,  laddove,  come  e'  noto,  la  legge
 istitutiva del Servizio n. 833/1978, conteneva una precisa disciplina
 legislativa delle prestazioni (cfr. ad es. artt. 25, 26  e  28).  Col
 nuovo sistema, le prestazioni sono disciplinate dal piano quasi senza
 vincolo  di  sorta,  ma  in prevalente connessione con "l'entita' del
 finanziamento" o col "volume delle risorse a disposizione".
    Non  si  muove  dalla  individuazione  delle  prestazioni  che  si
 vogliono  garantire,  calcolandone  i  costi  e  adeguando ad essi le
 risorse destinate (come avviene - almeno in linea di principio -  nel
 sistema delineato con gli artt. 51, 52 e 53 della legge n. 833/1978),
 ma  si  parte  dalle  risorse  destinate,  e  sulla base di queste si
 determinano, col piano, le prestazioni.
    Ora, tale impostazione appare anzitutto in  contrasto  (oltre  che
 con   l'art.   32   della   Costituzione,  che  sancisce  il  diritto
 fondamentale alla salute e dunque implicitamente una riserva di legge
 in questa materia) con i criteri  della  delega,  perche'  l'art.  1,
 primo  comma,  della legge n. 421/1992 prevede che nel riordino della
 sanita' si debba assicurare a tutti  i  cittadini,  fra  l'altro  "la
 gratuita'  del servizio nei limiti e secondo i criteri previsti dalla
 normativa vigente in materia", e dunque non prevede  la  possibilita'
 di  demandare a libere determinazioni governative la fissazione delle
 prestazioni; e perche' lo stesso art. 1, primo comma, della lett. g),
 stabilisce  che  con  i  provvedimenti  delegati  (quindi  a  livello
 legislativo)  si  debbano  "definire  principi relativi ai livelli di
 assistenza sanitaria  uniformi  e  obbligatori  ..  espressi  per  le
 attivita'   rivolte   agli   individui  in  termini  di  prestazioni,
 stabilendo  comunque  l'individuazione   della   soglia   minima   di
 riferimento,  da  garantire  a  tutti  i  cittadini,  e  il parametro
 capitario di finanziamento da assicurare alle regioni e alle province
 autonome per l'organizzazione di detta assistenza, in coerenza con le
 risorse stabilite dalla legge finanziaria".
    Questa totale delegificazione contrasta col principio di legalita'
 sostanziale  e  si traduce in uno strumento di lesione dell'autonomia
 delle regioni. Infatti se il Governo puo' liberamente determinare col
 piano  i  livelli  di  assistenza  e  le  prestazioni   che   intende
 finanziare,  e  se  le  Regioni debbono sopportare per intero i costi
 ulteriori, queste potrebbero dover fronteggiare oneri  insopportabili
 per  garantire il diritto alla salute dei cittadini, senza da un lato
 disporre dei mezzi necessari, ne' dall'altro lato disporre dei poteri
 necessari per incidere sui piu'  consistenti  fattori  di  spesa  (si
 pensi  agli  oneri  per  il  personale, che continuerebbero ad essere
 determinati per intero da norme e da contratti nazionali).
    Nella sentenza n. 245/1984 questa Corte ha affermato che "la parte
 essenziale della spesa sanitaria ed ospedaliera non puo' non  gravare
 sullo  Stato  ..  per  l'evidente  ragione che il diritto alla salute
 spetta egualmente a tutti i cittadini e va salvaguardato  sull'intero
 territorio  nazionale";  che "non e' pertanto casuale che la spesa in
 questione sia  prevalentemente  rigida  e  non  si  presti  a  venire
 manovrata,  in  qualche  misura,  se  non  dagli  organi  centrali di
 Governo"; che "l'esigenza di  pari  trattamento,  sottesa  all'intera
 riforma  sanitaria"  spiega  il  fatto  che  le  regioni  non possano
 incidere sulle voci piu' rilevanti della spesa sanitaria, e che  "per
 non  violare  l'eguaglianza dei cittadini nei confronti del Servizio"
 la stessa sfera di operativita'  delle  norme  che  riconoscono  alle
 regioni   il  potere  di  stabilire  quote  di  partecipazione  degli
 assistiti al costo della prestazione "dev'essere .. ridotta ai minimi
 termini", mentre "e' soltanto lo Stato che dispone, ancora una volta,
 della potesta' di circoscrivere in tal senso la  spesa"  (n.  11  del
 considerato in diritto).
    Si  puo'  forse  anche dissentire da una visione cosi' rigidamente
 centralizzatrice del sistema sanitario. Ma cio' che e' certo  e'  che
 contraddice  pienamente  con i criteri enunciati dalla Corte e con le
 garanzie costituzionali dell'autonomia, oltre che con i criteri della
 delega, un sistema che  realizza  una  totale  delegiferazione  delle
 prestazioni,  con  attribuzione al Governo del potere di determinarle
 liberamente, e contemporaneamente mantiene una  analitica  desciplina
 statale  e uno stringente controllo dello Stato su tutti gli elementi
 significativi  dell'organizzazione  e  dell'attivita'  sanitaria,   e
 dunque su tutti i fattori della spesa sanitaria.
    Si  noti,  del resto, che un analogo e anche piu' grave effetto di
 "delegificazione" deriva dall'art. 9 del decreto, che,  disciplinando
 le  cosi' dette "forme differenziate di assistenza", e in particolare
 l'affidamento a soggetti singoli o consortili, ivi comprese le  mutue
 volontarie,  della  facolta'  di  negoziare  con  gli erogatori delle
 prestazioni modalita' e condizioni, affida ad un decreto del Ministro
 della sanita' la determinazione delle quote  di  risorse  destinabili
 per  la  gestione  di  tali  forme  e la fissazione dei requisiti dei
 soggetti e dei criteri per  il  trasferimento  delle  quote  (secondo
 comma):  cosi'  rimettendo  nelle  mani  del  Ministro addirittura la
 struttura essenziale del Servizio sanitario nazionale.
    Vero e' che l'art. 1 del d.lgs. n. 502/1992 prevede che  il  piano
 sanitario  nazionale  sia  adottato d'intesa con la Conferenza Stato-
 regioni: ma questa intesa, se non e' mera  lustra,  e'  comunque  del
 tutto  inidonea  a garantire le regioni dal rischio ora delineato, in
 quanto e' previsto (conformemente  a  quanto  disposto  dall'art.  1,
 lett.  c),  della  legge  di  delega,  la  quale  pero'  non  prevede
 l'attribuzione  al  piano  della  totale  discrezionalita' in tema di
 definizione delle prestazioni (che ove l'intesa non intervenga  entro
 trenta  giorni  dalla  presentazione  dell'atto,  il Governo provvede
 direttamente (art. 1, primo comma,  ultimo  periodo,  del  d.lgs.  n.
 502/1992).
    4.  -  Per  connessione di argomento, si esporranno ora le censure
 relative agli artt. 12 e 13 del decreto, relativi rispettivamente  al
 "fondo sanitario nazionale" e all'"autofinanziamento regionale".
    Il  fondo sanitario nazionale di parte corrente continua ad essere
 determinato nel suo importo annuale dalla legge finanziaria, "tenendo
 conto  ...  dell'importo  complessivo  presunto  dei  contributi   di
 malattia  attribuiti direttamente alle regioni" ai sensi dell'art. 11
 (art. 12, primo comma).
    Di fatto quindi il fondo andra' ad  integrare  le  risorse  che  a
 ciascuna regione proverranno dall'attribuzione del gettito localmente
 riscosso dei contributi sanitari.
    Il  riparto  avviene  attribuendo  alle regioni, in relazione alla
 popolazione, una quota capitaria di finanziamento "determinata  sulla
 base di coefficienti parametrici, in relazione ai livelli uniformi di
 prestazioni  sanitarie  in tutto il territorio nazionale, determinati
 ai sensi dell'art. 1", tenendo conto di una serie di elementi  e  con
 quote di riequilibrio (art. 12, terzo e quarto comma).
    Le  quote  assegnate  alle  regioni ordinarie confluiscono in sede
 regionale nel fondo comune di cui all'art. 8 della legge n.  281/1970
 "come  parte  indistinta",  ma resta fermo il vincolo di destinazione
 "esclusivamente per finanziare attivita' sanitarie" (e dunque non  si
 trattera'  in  realta'  di  una  "parte indistinta" del fondo comune)
 (art. 12, quinto comma).
   Poiche', come si  e'  visto,  i  livelli  uniformi  di  prestazioni
 sanitarie  non sono nemmeno in parte determinati dal decreto delegato
 (come invece richiedeva la legge di delega, all'art. 1, primo  comma,
 lett.  g)),  ma  verranno  definiti  liberamente  dal piano sanitario
 nazionale,  cioe'  dal  Governo,  in  relazione   alle   "risorse   a
 disposizione"  (art.  1,  primo  comma, e quarto comma, lett. b)), ne
 discende che il finanziamento attraverso il fondo sanitario nazionale
 sara' determinato in  modo  totalmente  discrezionale  dall'esecutivo
 centrale,  senza  che  siano  apprestate idonee garanzie di effettiva
 copertura dei costi delle prestazioni e tanto  meno  degli  oneri  di
 mantenimento delle strutture pubbliche esistenti.
    Da  un  lato,  dunque,  la misura effettiva di soddisfacimento del
 diritto costituzionale alla salute  resta,  per  quanto  riguarda  il
 finanziamento   statale,   del   tutto   aleatoria  e  affidata  alle
 determinazioni del Governo, dall'altro  lato  -  cio'  che  qui  piu'
 direttamente   rileva  -  rimane  affidato  alle  determinazioni  del
 Governo, al di fuori di qualsiasi criterio legislativamente  fissato,
 il  livello di finanziamento delle strutture e dei servizi attribuiti
 alla  responsabilita'  delle  regioni  e  delle   aziende   da   loro
 dipendenti.
    Se nel sistema previgente, in cui le U.S.L. erano configurate come
 "strutture  operative  dei  comuni"  (art.  15, primo comma, legge n.
 833/1978), in linea di principio la responsabilita'  finanziaria  del
 servizio  gravava  sulle regioni solo nei limiti della quota di fondo
 sanitario loro attribuita, e  per  il  resto  restava  in  definitiva
 responsabile  lo  Stato,  nel  nuovo  sistema  viceversa, divenute le
 U.S.L.  enti  strumentali  delle  regioni  (art.  3, primo comma, del
 decreto legislativo impugnato), la  responsabilita'  finanziaria  dei
 relativi costi viene interamente addossata alla regione.
    E  infatti  l'art. 13 del decreto esplicitamente stabilisce che le
 regione "fanno fronte con risorse proprie"  non  solo  "agli  effetti
 finanziari   conseguenti  all'erogazione  di  livelli  di  assistenza
 sanitaria  superiori  a  quelli  uniformi  di  cui  all'art.   1"   e
 "all'adozione di modelli organizzativi diversi da quelli assunti come
 base per la determinazione dei parametri capitari di finanziamento di
 cui  al  medesimo  art.  1",  ma  anche  "agli eventuali disavanzi di
 gestione delle unita' sanitarie locali e  delle  aziende  ospedaliere
 con  conseguente  esonero  di  interventi  finanziari  da parte dello
 Stato" (art. 13, primo comma).
    Ora, poiche' il gettito dei contributi attribuiti alle regioni  e'
 riconosciuto  come  insufficiente a sostenere i costi del servizio, e
 poiche' l'entita' del finanzimento statale ulteriore,  attraverso  il
 riparto    del   fondo   sanitario   nazionale,   viene   determinata
 dall'esecutivo   centrale,   come   si   e'   visto,    con    totale
 discrezionalita', senza vincoli o criteri di legge, cio' comporta che
 l'autonomia   finanziaria   delle   regioni   e   la  loro  effettiva
 possibilita' di fronteggiare gli oneri  vengono  messe  completamente
 alla  merce'  delle  decisioni  del Governo, senza garanzia alcuna di
 effettiva  corrispondenza  dei  finanziamenti  ai  costi  reali   del
 servizio.
    A  cio'  peraltro - si badi - non fa riscontro, come ci si sarebbe
 attesi, un piu' ampio riconoscimento  alle  regioni  di  potesta'  di
 disciplina  e  di  governo  del  settore. Al contrario, la disciplina
 normativa delle  U.S.L.  e'  quella  stringente  recata  dalle  norme
 statali;  la disciplina del personale dipendente resta interamente di
 pertinenza della legge statale e del contratto  nazionale;  parimenti
 resta  affidata  ad  accordi nazionali e a un decreto del Ministro la
 regolamentazione dei rapporti con  i  professionisti  non  dipendenti
 (art.  8,  quinto  e sesto comma), lo Stato si riserva di definire in
 modo vincolante i livelli di assistenza (art. 1, quarto comma,  lett.
 b)),  i  requisiti  strutturali e organizzativi per l'esercizio delle
 attivita' nelle strutture pubbliche e private (art. 8, quarto comma);
 il Ministro stabilisce gli indicatori di qualita' e di efficienza  di
 servizi,  nonche'  le  modalita'  del  loro  utilizzo (art. 10, terzo
 comma; art. 14, primo comma).
    E' evidente la contraddizione insita in questo sistema:  di  fatto
 lo  Stato  intende  liberarsi della responsabilita' per quella "parte
 essenziale della spesa sanitaria ed ospedaliera" che  viceversa  "non
 puo'  non  gravare  sullo  Stato" secondo la netta affermazione della
 sentenza n. 245/1984  di  questa  Corte,  senza  pero'  rinunciare  a
 mantenere la competenza a disciplinare tutti gli aspetti del servizio
 e tutti i fattori della spesa.
    Il  tutto  senza  alcuna garanzia per le regioni, data la rilevata
 "delegificazione" del sistema delle prestazioni e l'attribuzione alla
 piena  discrezionalita'  degli  organi  governativi  del  potere   di
 stabilire  livelli  di  assistenza  e parametri di finanziamento: con
 violazione palese anche del principio di legalita' sostanziale.
    Ne'  varrebbe  osservare  il  contrario  che  alle  regioni  viene
 attribuita una possibilita' di "autofinanziamento" ai sensi dell'art.
 13, secondo e terzo comma, del decreto.
    Infatti  da  un lato le misure adottabili dalle regioni, riduzione
 dei limiti massimi di spesa per gli esenti, aumento della quota fissa
 sulle  prescrizioni  farmaceutiche  e  sulle   ricette   relative   a
 prestazioni   sanitarie,  forme  di  partecipazione  alla  spesa  per
 eventuali altre prestazioni (ma "nel rispetto  dei  principi  del  ..
 decreto":  art.  13,  secondo comma) sono palesemente insufficienti a
 consentire ampi margini di manovra, e d'altronde non  possono  essere
 utilizzate  se  non  nell'ambito  di  un  sfera  che "per non violare
 l'eguaglianza dei cittadini  nei  confronti  del  servizio,  ..  deve
 essere,  invero,  ridotta  ai  minimi  termini", come si esprimeva la
 sentenza n. 245/1984 di questa Corte.
   Dall'altro lato la previsione della  possibilita'  di  aumentare  i
 contributi  "entro il limite del sei per cento" o i tributi regionali
 entro il limite del 75% (art. 1, primo  comma,  lett.  i),  legge  n.
 421/1992,  come modificato dall'art. 8, secondo comma, della legge n.
 498/1992) appare del tutto  insufficiente,  ove  si  pensi  al  ruolo
 quantitativamente  e  qualitativamente  del tutto modesto e marginale
 ancora oggi riconosciuto  alla  potesta'  impositiva  autonoma  delle
 regioni.
    Queste  ultime,  insomma,  rischiano  di essere schiacciate fra le
 tenaglie di costi ineludibili e incomprimibili in  relazione  ad  una
 disciplina  del  servizio  ancora  quasi esclusivamente statale, e di
 entrate insufficienti discrezionalmente assegnate dallo Stato.
    In particolare, appare inaccettabile e  lesiva  dell'autonomia  la
 disposizione  per  cui  le  regioni dovrebbero far fronte con risorse
 proprie agli "eventuali disavanzi di gestione delle unita'  sanitarie
 locali  e  delle  aziende  ospedaliere  con  conseguente  esonero  di
 interventi finanziari da parte dello Stato" (art. 13,  primo  comma),
 senza  che  si  distingua  in  alcun  modo  fra  disavanzi o quote di
 disavanzo derivanti da fattori controllabili e governabili  da  parte
 delle  aziende  sanitarie  e  delle  regioni,  e disavanzi o quote di
 disavanzo derivanti da fattori  interamente  governati  dagli  organi
 centrali o con strumenti di carattere nazionale.
    5. - Sempre nell'ambito della disciplina del finanziamento, merita
 censura  la  disposizione  dell'art. 12, secondo comma, n. 2, dove si
 prevede  che  la  quota  dell'1%  del   Fondo   sanitario   nazionale
 complessivo (quindi comprensivo, par di capire, anche del gettito dei
 contributi),  riservata  al  Ministero  della  sanita',  possa essere
 utilizzata anche per "iniziative centrali previste da leggi nazionali
 riguardanti programmi speciali di interesse e rilievo  interregionale
 o  nazionale  per  ricerche  o  sperimentazioni attinenti gli aspetti
 gestionali,  la  valutazione  dei   servizi,   le   tematiche   della
 comunicazione  e  dei  rapporti  con  i  cittadini,  le  tecnologie e
 biotecnologie sanitarie".
    Tale disposizione, da un lato,  prefigura  un'attivita'  di  spesa
 diretta,  di  gestione  e  di  amministrazione attribuita allo Stato,
 eccedente i compiti, riservati allo Stato stesso, di  "programmazione
 sanitaria  nazionale"  e  di  "determinazione  di livelli uniformi di
 assistenza  sanitaria   e   delle   relative   quote   capitarie   di
 finanziamento"  (art.  1,  primo  comma,  lett.  c),  della  legge n.
 421/1992),  e  invasiva  dell'ambito  delle   competenze   regionali.
 Dall'altro  lato  essa  e'  specificamente contrastante con l'art. 1,
 primo comma, lett. t), della legge di delega, ove si prevede che  una
 quota  del  Fondo  sia  destinata  "ad  attivita'  di  ricerca medica
 finalizzata,  alle  attivita'  di  ricerca  di  istituti  di  rilievo
 nazionale, riconosciuti come tali dalla normativa vigente in materia,
 dell'Istituto superiore di sanita' e dell'Istituto superiore  per  la
 prevenzione e la sicurezza del lavoro (ISPESL), nonche' ad iniziative
 centrali  previste  da leggi nazionali riguardanti programmi speciali
 di interesse e rilievo interregionale o nazionale".
    In particolare non rientrano in tali  limiti  le  "sperimentazioni
 attinenti  gli  aspetti  gestionali,  la  valutazione dei servizi, le
 tematiche della  comunicazione  e  dei  rapporti  con  i  cittadini",
 essendo evidente che sotto la generica etichetta di "sperimentazione"
 nel  campo  gestionale  troverebbe  facile  ingresso  ogni  forma  di
 attivita' di gestione  e  quindi  di  vera  e  propria  attivita'  di
 assistenza   sanitaria,   strettamente   pertinente  alla  competenza
 regionale (si  veda  anche  l'art.  9,  primo  e  quarto  comma,  del
 decreto).
    Il  Ministero della sanita' non rinuncia, insomma, ad allargare la
 propria  attivita'  al  di  la'  dei  compiti  di  indirizzo   e   di
 programmazione generale che ad esso dovrebbero spettare.
    6.  -  L'art.  3  del  decreto disciplina la "organizzazione delle
 unita' sanitarie locali".
    Mentre l'art. 1, primo comma, della legge di delega prevedeva  che
 il  provvedimento  delegato  si  limitasse  a  "definire  i  principi
 organizzativi delle unita' sanitarie locali" (lett. d)),  nonche'  "i
 principi  relativi  ai  poteri  di  gestione  spettanti  al direttore
 generale"  (lett.  f)),  e  mentre  la  competenza  in   materia   di
 "programmazione  e  organizzazione"  dell'assistenza sanitaria doveva
 essere attribuita alle regioni ((art.  1,  primo  comma,  lett.  c)),
 l'art. 3 del decreto contiene una disciplina estremamente dettagliata
 e  minuziosa di tutta l'organizzazione delle "aziende" sanitarie, pur
 esplicitamente configurate come enti strumentali della regione.
    Cosi' non ci si limita a prevedere come organi della U.S.L.  il  e
 il  collegio  dei  revisori e il direttore generale, coadiuvato da un
 direttore amministrativo e da un direttore sanitario, e assistito per
 le attivita' sanitarie da un consiglio dei sanitari (secondo la  gia'
 analitica  previsione dell'art. 1, primo comma, lett. d), della legge
 di delega), ma per ciascuna delle figure  organizzative  previste  si
 detta una disciplina minuziosa e del tutto esaustiva:
       a)  per  il  direttore generale si disciplinano puntualmente le
 modalita'  di  nomina  (sesto  comma,  primo   periodo)   nell'ambito
 dell'elenco  nazionale interamente disciplinato e gestito dallo Stato
 (decimo comma); le ineleggibilita'  e  le  incompatibilita'  (nono  e
 undicesimo  comma);  i  caratteri  e la durata del rapporto di lavoro
 (sesto comma, secondo periodo), demandando addirittura ad un  decreto
 del  Presidente  del  Consiglio  la  fissazione  dei  "contenuti" del
 relativo contratto "di diritto privato", "ivi compresi i criteri  per
 la  determinazione  degli  emolumenti"  (con  buona  pace dei criteri
 "privatistici" di managerialita' e  di  ricorso  al  mercato)  (sesto
 comma,  secondo periodo); la sostituzione in caso di vacanza, assenza
 o impedimento, nonche' i casi di  risoluzione  del  contratto  (sesto
 comma,  terzo periodo), e addirittura gli obblighi di motivazione dei
 provvedimenti da esso  adottati  (sesto  comma,  terzo  periodo).  Al
 direttore  generale  son  poi attribuiti "tutti i poteri di gestione,
 nonche' la  rappresentanza  dell'unita'  sanitaria  locale",  laddove
 l'art.  1,  primo  comma,  della  legge di delega prescrivendo che le
 U.S.L. abbiano "propri organi di gestione" (lett. d)), e imponendo di
 definire  "i  principi  relativi  ai  poteri di gestione spettanti al
 direttore generale" (lett. f)), sembra presupporre una pluralita'  di
 organi di gestione e una distribuzione dei relativi poteri;
       b) per i direttori amministrativo e sanitario si prevedono pure
 le  modalita'  di  assunzione,  la  disciplina del rapporto di lavoro
 (anche qui con attribuzione al Presidente del Consiglio del potere di
 fissare i "contenuti" del  contratto),  le  ipotesi  di  sospensione,
 decadenza, cessazione dall'incarico, riconferma (settimo comma, primo
 periodo),  i  requisiti  positivi  e  negativi per la nomina (settimo
 comma, secondo  periodo  e  undicesimo  comma),  il  collocamento  in
 aspettativa  se  pubblici  dipendenti  (ottavo  comma), le specifiche
 funzioni (settimo comma, secondo periodo);
       c) per il Consiglio dei sanitari sono regolate la composizione,
 le funzioni, e perfino le modalita' e i termini per l'espressione dei
 relativi pareri (dodicesimo comma);
       d) per cio' che riguarda il collegio dei revisori -  organo  di
 controllo,  si basi, di quello che viene definito un ente strumentale
 della regione - non solo si  prevedono  analiticamente  composizione,
 modalita'  di  nomina,  requisiti,  durata  in  carica, sostituzioni,
 compensi, funzioni e modalita' di esercizio delle stesse (tredicesimo
 comma), ma addirittura si prevede, da un lato, che su tre membri  uno
 solo sia designato dalla regione (o due nelle unita' sanitarie locali
 di  dimensioni  maggiori),  e  dall'altro  lato  che  la  regione non
 intervenga  nel  procedimento  di  nomina,  riservato  al   direttore
 generale (sempre tredicesimo comma);
       e)  anche,  infine,  per quanto riguarda i compiti demandati ai
 sindaci o ai presidenti di circoscrizione in  ordine  agli  indirizzi
 per  l'impostazione dell'attivita' della U.S.L., il decreto si spinge
 fino  a  prevedere  il   numero   dei   componenti   della   relativa
 rappresentanza  nelle  U.S.L. il cui ambito territoriale non coincide
 col territorio del comune (quattordicesimo comma).
    Onde, in definitiva, la  potesta'  riconosciuta  alle  regioni  di
 disciplinare  "le  modalita'  organizzative  e di funzionamento delle
 unita' sanitarie locali"  si  riduce  di  fatto  a  quasi  nulla;  in
 pratica,  spetta alle regioni solo identificare formalmente l'assetto
 territoriale delle U.S.L., col vincolo pero' di doverne prevedere  la
 riduzione,  e  di farne coincidere di norma l'ambito territoriale con
 quelle delle province (quinto comma, lett.  a)),  e  disciplinare  il
 passaggio delle vecchie alle nuove U.S.L. (quinto comma, lett. c)).
    Ne'  le  analitiche  norme  poste  dal  decreto possono facilmente
 ravvisarsi come norme  di  dettaglio  cedevoli  nei  confronti  della
 successiva legislazione regionale, poiche' nulla nel decreto e' detto
 in  tal  senso,  mentre  nella legge di delega, sia pure con riguardo
 alla diversa materia del pubblico  impiego,  si  trova  la  singolare
 statuizione  secondo  cui  non  solo  le  disposizioni della legge di
 delega  stessa,  ma  altresi'   quelle   dei   decreti   legislativi,
 costituirebbero  "principi  fondamentali ai sensi dell'art. 117 della
 Costituzione" (art. 2, secondo comma). In ogni  caso,  sull'eventuale
 carattere  cedevole  e  suppletivo  delle  norme  del decreto sarebbe
 massimamente opportuna una autorevole pronuncia della Corte.
    Con riguardo al collegio dei revisori (tredicesimo comma)  e'  poi
 palesemente  illegittima,  perche'  contrastante  con  criteri  della
 delega e lesiva dell'autonomia regionale, la disposizione secondo cui
 ove il direttore  generale  non  proceda  entro  trenta  giorni  alla
 ricostituzione  del  collegio  cessato  o decaduto "il Ministro della
 sanita', su segnalazione del  commissario  del  Governo,  provvede  a
 costituirlo  in  via  straordinaria  con due funzionari designati dal
 Ministro  del  tesoro  e  un  funzionario  designato   dal   predetto
 commissario  del  Governo".  Siffatto  potere  sostitutivo in capo al
 Ministro e al commissario del Goveno contrasta in particolare con  il
 criterio  fissato  nell'art.  1,  lett.  n),  della  legge di delega,
 secondo cui si doveva prevedere che in caso di inadempimento da parte
 delle  regioni  (ma  lo  stesso  non  puo'  non  valere   anche   per
 inadempienze  da  parte  degli organi di quello che viene configurato
 come  un  ente  strumentale  delle  regioni)  sia  il  Consiglio  dei
 Ministri,   su   proposta   del   Ministro   della   sanita'  (e  non
 quest'ultimo), e previa diffida, a disporre il compimento degli  atti
 relativi in sostituzione delle amministrazioni competenti.
    7.  - L'art. 4 del decreto, concernente le aziende ospedaliere e i
 presidi ospedalieri, appare lesivo dell'autonomia regionale anzitutto
 la'  dove  stabilisce  che  alla  individuazione  degli  ospedali  da
 costituire in azienda ospedaliera provveda il Consiglio dei Ministri,
 su proposta del Ministro della sanita'.
    Si  prevede  bensi'  che  tale  individuazione avvenga "sulla base
 delle indicazioni pervenute dalla regione" (primo comma: peraltro, in
 mancanza, il Ministro formula senz'altro le sue proposte), ma  "sulla
 base" non significa "in conformita'" a dette indicazioni.
    Cosi'  che  e'  facilmente prevedibile che alcuni ospedali possano
 cercare di ottenere direttamente dal Governo  lo  status  di  azienda
 ospedaliera, aggirando la programmazione regionale.
    Per  di  piu'  si  prevede,  con  norma  che  si  pone  in  aperta
 contraddizione con la legge di delega (primo comma, lett. n))  e  con
 la  stessa  previsione nel decreto delegato di precisi requisti degli
 ospedali da costituire in aziende  (che  devono  essere  ospedali  di
 rilievo  nazionale e di alta specializzazione, o ospedali destinati a
 centro di riferimento della rete dei servizi di emergenza), che  "con
 le   stesse   procedure   (quali?   quella   'governativa'  o  quella
 regionale?)" si provvede alla costituzione in azienda  di  "ulteriori
 ospedali,  dopo  la  prima  attuazione"  del  decreto medesimo, senza
 dettare nemmeno alcun criterio in proposito.
    In tal modo si apre la strada ad un indiscriminato scorporo  degli
 ospedali  di  ogni  dimensione dalla struttura gestionale complessiva
 del servizio sanitario.
    Parimenti contrasta con  i  criteri  della  delega  la  previsione
 secondo   cui   "sono   ospedali  di  rilievo  nazionale  e  di  alta
 specializzazione  ..  i  presidi  ospedalieri  in  cui   insiste   la
 prevalenza del rapporto formativo del triennio clinico della facolta'
 di  medicina  e  chirurgia e, a richiesta dell'universita', i presidi
 ospedalieri che operano in struture di  pertinenza  dell'universita'"
 (terzo comma: cfr. anche sesto comma).
    Infatti  l'art.  1,  primo  comma, lett. n), della legge di delega
 prevede l'attribuzione della autonomia aziendale solo ai "policlinici
 universitari", non ad ogni presidio ospedaliero anche minore che  per
 qualsiasi   ragione   abbia  a  che  fare  con  l'universita'  o  con
 l'attivita'    didattica,    circostanza    questa,     evidentemente
 insufficiente  a  trasformarlo in ospedale "di rilievo nazionale e di
 alta specializzazione"; e non prevede  affatto  che  la  costituzione
 delle    aziende    ospedaliere    possa    avvenire   "a   richiesta
 dell'universita'".
    Per di piu' il sesto comma dell'art. 4 dispone che  nelle  aziende
 ospedaliere  ove  insiste  la  prevalenza  del  corso  formativo  del
 triennio clinico, il direttore generale sia nominato "d'intesa con il
 rettore dell'Universita'": ancora  una  volta  in  contrasto  con  la
 delega e in violazione dell'autonomia della regione.
    Rispetto alla organizzazione delle nuove aziende ospedaliere, agli
 organi e alle rispettive attribuzioni, si applica la stessa normativa
 prevista  per  l'unita'  sanitaria  locale  (primo  comma), e valgono
 dunque le stesse censure gia' svolte riguardo all'art. 3.
    Inoltre l'ottavo comma, seconda parte, del medesimo art. 4 prevede
 che "il verificarsi di ingiustificati  disavanzi  di  gestione  o  la
 perdita  delle caratteristiche strutturali e di attivita' prescritte,
 fatta salva l'autonomia dell'universita', comportano  rispettivamente
 il  commissariamento  da  parte  della  giunta  regionale e la revoca
 dell'autonomia aziendale". Mentre per quest'ultimo provvedimento  non
 si  specifica  chi  sia  competente  ad adottarlo, per l'adozione del
 commissariamento si fa riferimento ad uno specifico organo  regionale
 - la giunta - cosi' violando l'autonomia organizzativa della regione.
    Infine  il  decimo  comma,  secondo periodo, dell'art. 4 detta una
 minuziosissima  disciplina  -  a  sua  volta  lesiva   dell'autonomia
 regionale  -  circa  l'obbligo di riservare negli ospedali (in tutti,
 non solo in quelli costituiti  in  aziende)  da  un  lato  spazi  per
 l'esercizio  della  professione  intramuraria,  dall'altro  lato "una
 quota non inferiore al 6% e non superiore al 12% dei posti letto  per
 la  istituzione  di  camere  a pagamento", dettando altresi' norme su
 compensi a carico dei ricoverati.
    8. - L'art. 6 del  decreto,  dedicato  ai  rapporti  tra  Servizio
 sanitario  nazionale  ed  universita',  contiene  a  sua volta alcune
 previsioni illegittime e lesive dell'autonomia regionale.
    Mentre l'art. 1, primo comma, lett.  o),  della  legge  di  delega
 stabilisce  che  l'apporto all'attivita' assistenziale delle facolta'
 di medicina deve essere  regolato  "secondo  le  modalita'  stabilite
 dalla programmazione regionale in analogia con quanto previsto, anche
 in termini di finanziamento, per le strutture ospedaliere", l'art. 6,
 primo   comma,   del   decreto   stabilisce   che   "le   universita'
 contribuiscono, per quanto di competenza, alla elaborazione dei piani
 sanitari  regionali",  sembrando  cosi'  configurare  una   impropria
 competenza   concorrente   delle   universita'  nella  programmazione
 dell'assistenza sanitaria.
    Il terzo comma dell'art. 6, poi, sembra  sottrarre  la  formazione
 del personale sanitario infermieristico alla competenza delle regioni
 (cui  certamente  essa  spetta, anche sotto il titolo dell'istruzione
 professionale)   per   configurare   tale    attivita'    nell'ambito
 dell'istruzione  universitaria,  pur  ribadendo  che la formazione di
 detto personale "avviene in sede ospedaliera".
    Si prevede infatti che l'ordinamento didattico  sia  definito  con
 decreti  interministeriali,  ai  sensi  dell'art.  9  della  legge n.
 341/1990, che regola  appunto  l'ordinamento  dei  corsi  di  diploma
 universitario, di laurea e di specializzazione; e prevede il rilascio
 dei  diplomi  a  firma del responsabile delle "predette scuole" (?) e
 del rettore dell'universita' competente.
    Nessuna  traccia di cio' si rinviene nella legge di delega, che si
 limita a prevedere la regolamentazione  del  "rapporto  tra  Servizio
 sanitario  nazionale  ed  universita'  per  la  formazione  in ambito
 ospedaliero del personale sanitario e per le  specializzazioni  post-
 laurea" (art. 1, primo comma, lett. o)).
    Il quarto comma dell'art. 6 del decreto introduce un'altra ipotesi
 di  potere  sostitutivo  del  Ministro  della sanita', in questo caso
 congiuntamente  al   Ministro   dell'universita',   ai   fini   della
 stipulazione  dei  protocolli  d'intesa  con  le  universita'  che le
 regioni non abbiano stipulato:  in  contrasto  con  l'art.  1,  primo
 comma,  lett.  n),  della  legge  di  delega, che prevede solo poteri
 sostitutivi esercitati dal Consiglio dei Ministri.
    Infine lo stesso quarto comma dell'art.  6,  nella  parte  finale,
 attribuendo   ai   Ministri   della   sanita'   e   dell'universita',
 congiuntamente, il potere di fornire "gli indirizzi per  la  corretta
 applicazione  degli accordi", configura, a quanto sembra, una anomala
 potesta' di indirizzo in capo ai Ministri, senza  alcuna  statuizione
 dei  criteri  legislativi  e  dunque  con violazione del principio di
 legalita' sostanziale e lesione dell'autonomia regionale.
    9. - L'art. 7 del decreto disciplina  i  "presidi  multizonali  di
 prevenzione". Mentre secondo la legge di delega si dovevano "definire
 i  principi  ed  i  criteri  per  la riorganizzazione, da parte delle
 regioni e province autonome,  su  base  dipartimentale,  dei  presidi
 multizonali  di  prevenzione"  (art.  1, primo comma, lett. s), della
 legge n. 421/1992), l'art. 7 del decreto esordisce stabilendo che "la
 legge regionale attribuisce la gestione dei  presidi  multizonali  di
 prevenzione  ad  un  apposito organismo per la prevenzione, unico per
 tutto il territorio regionale, costituito secondo i principi  di  cui
 all'art.  3,  primo comma, e nei termini di cui al quinto comma dello
 stesso articolo".
    Si prevede dunque,  senza  alcuna  base  nella  delega,  un  nuovo
 organismo  aziendale,  con  direttore  generale,  direttore sanitario
 (denominato nelle  specie  direttore  tecnico  sanitario),  direttore
 amministrativo,  consiglio  dei  sanitari  (denominato  consiglio dei
 sanitari e dei tecnici).
    A tale organismo o azienda e' affidata la "gestione"  di  tutti  i
 presidi  multizonali  di  prevenzione della regione, riorganizzati di
 norma su base provinciale (secondo comma, lett. a)).
    Tale previsione non solo e' del tutto  illegittima,  lesiva  della
 competenza  e  dell'autonomia regionale, e contrastante con i criteri
 della delega, ma si appalesa a prima vista illogica: imporre un unico
 organismo regionale di gestione, sia per le Regioni piu' piccole, sia
 per quelli maggiori, con milioni di abitanti e numerose Province,  e'
 evidentemente incongruo.
    In  ogni  caso,  mentre  i presidi multizonali di prevenzione sono
 configurati  dall'art.  22  della  legge  n.  833/1978  come  presidi
 dell'unita'   sanitaria  locale  nel  cui  ambito  territoriale  sono
 ubicati, e mentre la legge di delega, come si e' ricordato, si limita
 a prevederne la riorganizzazione ad opera della regione,  il  decreto
 istituisce  un  quid  nuvum, un organismo regionale unico di gestione
 dei presidi, costituito a sua volta in azienda autonoma, e destinato,
 se ben s'intende, a  sostituirsi  nei  compiti  oggi  spettanti  alla
 regione  e  alle  unita' sanitarie locali; oltrettutto prevedendo una
 gestione unitaria, tecnica e amministrativa, a livello regionale che,
 specie   nelle   regioni   maggiori,   e'   destinata   a   rivelarsi
 impraticabile.
    Inoltre   il  quarto  comma  dell'art.  7  prevede  "attivita'  di
 indirizzo e  coordinamento  necessarie  per  assicurare  la  uniforme
 attuazione    delle   normative   comunitarie   e   degli   organismi
 internazionali",  assicurate  "congiuntamente  dal  Ministero   della
 sanita'  e  del  Ministero  dell'ambiente"  che  si avvalgono di vari
 istituti.
    Anche  la  previsione   di   tale   attivita'   di   indirizzo   e
 coordinamento,  priva  di  ogni  base  nella  legge  di  delega e non
 accompagnata da alcun  criterio  per  il  suo  esercizio,  e'  lesiva
 dell'autonomia regionale e del principio di legalita' sostanziale.
    10.  -  L'art.  8  del  decreto,  che  disciplina  i "rapporti per
 l'erogazione delle prestazioni assistenziali", prevede anzitutto  che
 il  rapporto  tra  servizio  sanitario nazionale e medici di medicina
 generale, pediatri  di  libera  scelta,  farmacie,  sia  regolato  da
 convenzioni  triennali  conformi  agli  accordi  collettivi nazionali
 (primo  e  secondo  comma).  Per  quanto  riguarda   le   prestazioni
 specialistiche,  esse  saranno  erogate,  oltre  che  dalle strutture
 pubbliche, da professionisti  con  i  quali  la  U.S.L.  "intrattiene
 appositi  rapporti  fondati  sulla corresponsione di un corrispettivo
 predeterminato a fronte della prestazione" (terzo comma).
    In tutto questo sistema lo spazio per la programmazione  regionale
 sembra del tutto assente.
    Per  di  piu'  il  sesto  comma demanda ad un decreto del Ministro
 della sanita' la statuizione dei criteri generali per  la  fissazione
 delle  tariffe  delle  prestazioni  specialistiche  erogate  in forma
 diretta.
    E' vero che detto decreto dovrebbe essere emanato d'intesa con  la
 conferenza  Stato-regioni,  ma e' previsto altresi' che, ove l'intesa
 non  intervenga  entro  trenta  giorni   dal   riconoscimento   della
 richiesta, "il Ministro della sanita' provvede direttamente".
    Ancora  una  volta una sorta di potere sostitutivo e' riconosciuto
 dunque  al  Ministro,  senza  alcuna  garanzia   procedimentale,   in
 contrasto  anche  con quanto disposto dall'art. 1, primo comma, lett.
 n), della legge di delega.
    A sua volta il quarto comma dell'art. 8 prevede che  con  atto  di
 indirizzo  e  coordinamento  siano  definiti i requisiti strutturali,
 tecnologici e organizzativi minimi richiesti  per  l'esercizio  delle
 attivita'  sanitarie e la periodicita' dei controlli sulla permanenza
 dei requisiti stessi, per cio' che rigurda le  istituzioni  sanitarie
 di  carattere  privato,  ma con disciplina che "si applica anche alle
 corrispondenti strutture pubbliche".
    Anche la previsione di tale potere di indirizzo  e  coordinamento,
 non  vincolato  all'osservanza  di  criteri legislativamente fissati,
 appare lesiva dell'autonomia regionale e del principio  di  legalita'
 sostanziale.
    E'  ben vero che si prevede che l'atto sia emanato d'intesa con la
 conferenza Stato-regioni. Ma l'intervento della Conferenza  non  puo'
 valere  da  solo a garantire l'autonomia della regione, ne' a coprire
 la mancanza di criteri sostanziali legislativamente stabiliti:  tanto
 piu'  se  si  dovesse  ritenere applicabile anche a questa ipotesi la
 previsione dell'art. 1, primo comma, lett. c), della legge di  delega
 secondo  cui,  ove  l'intesa  con  la conferenza non intervenga entro
 trenta giorni, il Governo provvede direttamente  (col  che,  come  e'
 evidente,  la  stessa  previsione  dell'intesa  diventerebbe una mera
 lustra).
    11. - L'art. 10 del decreto ("controllo di qualita'")  prevede  al
 secondo  comma  che "con decreto del Ministro della sanita', d'intesa
 con la conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le  regioni
 e  le  province  autonome  e  sentite  la Federazione nazionale degli
 ordini di medici e degli odontoiatri e degli altri ordini  e  collegi
 competenti,  sono  stabiliti  i  contenuti e le modalita' di utilizzo
 degli indicatori di efficienza e di qualita''".
    L'importanza di tali indicatori e' evidente, se si tiene conto che
 essi  possono  diventare  di  fatto   criteri   vincolanti   per   la
 programmazione e il finanziamento dei servizi.
    Anche  in  questo  caso  la potesta' di definire gli indicatori e'
 attribuita al Ministro senza alcuna statuizione di criteri, e  dunque
 senza  sufficiente base legislativa. Ne' puo' bastare, per le regioni
 poc'anzi dette, la prevista intesa con la  conferenza  (che  peraltro
 non   puo'   sostituire   l'esercizio  dell'autonomia  delle  singole
 regioni), specie se si dovesse ritenere applicabile  anche  a  questa
 ipotesi la previsione dell'art. 1, primo comma, lett. c), della legge
 delega,  secondo  cui  ove  l'intesa con la Conferenza non intervenga
 entro trenta giorni il Governo provvede direttamente.
    12. - Analoghe censure merita l'art. 14, primo comma, del decreto,
 il quale attribuisce al Ministro della sanita', sentita la conferenza
 Stato-regioni (stavolta dunque senza nemmeno il vincolo  dell'intesa)
 il  potere  di definire con proprio decreto "un sistema di indicatori
 di qualita' dei servizi e delle prestazioni  sanitarie  relativamente
 alla  personalizzazione  ed umanizzazione dell'assistenza, al diritto
 all'informazione,    alle    prestazioni     alberghiere,     nonche'
 dell'andamento delle attivita' di prevenzione delle malattie".
    Tale  sistema  di  indicatori deve essere utilizzato dalle regioni
 "per la verifica, anche sotto il profilo sociologico, dello stato  di
 attuazione   dei   diritti   dei  cittadini,  per  la  programmazione
 regionale, per la definizione degli investimenti  di  risorse  umane,
 tecniche e finanziarie" (secondo comma).
    Ancora   una   volta   si   demanda  al  Ministro,  senza  criteri
 legislativamente fissati e senza base nella legge di delega  (che  si
 limita  a  prevedere  la  definizione  dei  "principi per garantire i
 diritti dei cittadini": art. 1, primo comma, lett. r), della legge n.
 421/1992), un'attivita' sostanzialmente di indirizzo e coordinamento,
 lesiva dell'autonomia regionale.