Ricorso della regione Campania, in persona del presidente della giunta regionale avv. Ferdinando Clemente di San Luca, autorizzato con delibera della giunta regionale n. 295 del 26 gennaio 1993, rappresentato e difeso dall'avv. prof. Valerio Onida, con elezione di domicilio presso l'avv. Gualtiero Rueca, in Roma, largo della Gancia, 1, come da delega a margine del presente atto, contro il Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore, per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale degli artt. 1, 3, 4, 6, 7, 8, 10, 12, 13, 14 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 305 del 30 dicembre 1992, concernente "riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421". 1. - L'art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, ha delegato il Governo a dettare una nuova disciplina della sanita' "ai fini della ottimale e razionale utilizzazione delle risorse destinate al Servizio sanitario nazionale, del perseguimento della migliore efficienza del medesimo a garanzia del cittadino, di equita' distributiva e del contenimento della spesa sanitaria, con riferimento all'art. 32 della Costituzione, assicurando a tutti i cittadini il libero accesso e la gratuita' del servizio nei limiti e secondo i criteri previsti dalla normativa vigente in materia". In particolare, fra i principi e i criteri direttivi stabiliti per l'esercizio della delega, la lett. c) del primo comma dell'art. 1 predetto imponeva di "completare il riordinamento del Servizio sanitario nazionale, attribuendo alle regioni e alle province autonome la competenza in materia di programmazione e organizzazione dell'assistenza sanitaria e riservando allo Stato, in questa materia, la programmazione sanitaria nazionale, la determinazione di livelli uniformi di assistenza sanitaria e delle relative quote capitarie di finanziamento, secondo misure tese al riequilibrio territoriale e strumentale, d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano". Altri piu' semplici principi e criteri direttivi sono dettati nelle altre lettere dello stesso comma, cui avremo occasione di fare analitico riferimento piu' avanti. La delega in questione e' stata esercitata con l'emanazione del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, intitolato al "riordino della disciplina in materia sanitaria". Tale provvedimento, varato dal Goveno con una certa frettolosita', in anticipo sullo stesso breve termine di novanta giorni fissato dalla legge di delega, per piu' aspetti "tradisce" pero' i criteri della delega, in particolare occupando spazi che avrebbero dovuto rimanere riservati alle regioni, avocando a organi centrali compiti e poteri ulteriori rispetto a quelli legittimamente riservati allo Stato, e realizzando un complessivo disegno del Servizio sanitario nazionale alquanto squilibrato, nel senso che ad una invadente e soffocante presenza dello Stato nella disciplina e nel concreto governo di tutti gli aspetti del servizio fa riscontro la pretesa di rovesciare su bilanci regionali la piena responsabilita' finanziaria per i costi del servizio stesso; senza stabilire nemmeno criteri e parametri del finanziamento statale. Varie disposizioni del decreto legislativo appaiono lesive sia degli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, sia dell'oggetto e dei principi e criteri direttivi della delega e dunque dell'art. 76 della Costituzione, violazioni queste ultime ridondanti a loro volta in lesioni dell'autonomia regionale. 2. - L'art. 1, primo comma, della legge di delega n. 421/1992 stabiliva che nella materia sanitaria i decreti legislativi delegati fossero emanati "sentita la conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano". Viceversa il decreto n. 502 risulta essere stato emanato senza acquisire il parere della conferenza, e comunque di tale parere non si da' in esso alcun conto: infatti nelle premesse del decreto si menziona solo il parere delle commissioni permanenti delle Camere. Gia' per questo preliminare motivo, che comporta una violazione dell'art. 76 della Costituzione, ridondante in lesione dell'autonomia, il decreto in questione appare costituzionalmente illegittimo. 3. - L'art. 1 del decreto stabilisce che "gli obiettivi fondamentali di prevenzione, cura e riabilitazione e le linee generali di indirizzo del Servizio sanitario nazionale nonche' i livelli di assistenza da assicurare in condizioni di uniformita' sul territorio nazionale sono stabiliti con il piano sanitario nazionale", "in coerenza 'fra l'altro' con l'entita' del finanziamento assicurato al Servizio sanitario nazionale" (primo comma). Piu' specificamente e' previsto che il piano indica fra l'altro "i livelli uniformi di assistenza sanitaria da individuare sulla base anche di dati epidemiologici e clinici, con la specificazione delle prestazioni da garantire a tutti i cittadini, rapportati al volume delle risorse a disposizione" (quarto comma, lett. b)). Si attua dunque, a questo riguardo, una totale "delegificazione" della disciplina delle prestazioni garantite a tutti i cittadini dal Servizio sanitario nazionale, laddove, come e' noto, la legge istitutiva del Servizio n. 833/1978, conteneva una precisa disciplina legislativa delle prestazioni (cfr. ad es. artt. 25, 26 e 28). Col nuovo sistema, le prestazioni sono disciplinate dal piano quasi senza vincolo di sorta, ma in prevalente connessione con "l'entita' del finanziamento" o col "volume delle risorse a disposizione". Non si muove dalla individuazione delle prestazioni che si vogliono garantire, calcolandone i costi e adeguando ad essi le risorse destinate (come avviene - almeno in linea di principio - nel sistema delineato con gli artt. 51, 52 e 53 della legge n. 833/1978), ma si parte dalle risorse destinate, e sulla base di queste si determinano, col piano, le prestazioni. Ora, tale impostazione appare anzitutto in contrasto (oltre che con l'art. 32 della Costituzione, che sancisce il diritto fondamentale alla salute e dunque implicitamente una riserva di legge in questa materia) con i criteri della delega, perche' l'art. 1, primo comma, della legge n. 421/1992 prevede che nel riordino della sanita' si debba assicurare a tutti i cittadini, fra l'altro "la gratuita' del servizio nei limiti e secondo i criteri previsti dalla normativa vigente in materia", e dunque non prevede la possibilita' di demandare a libere determinazioni governative la fissazione delle prestazioni; e perche' lo stesso art. 1, primo comma, della lett. g), stabilisce che con i provvedimenti delegati (quindi a livello legislativo) si debbano "definire principi relativi ai livelli di assistenza sanitaria uniformi e obbligatori .. espressi per le attivita' rivolte agli individui in termini di prestazioni, stabilendo comunque l'individuazione della soglia minima di riferimento, da garantire a tutti i cittadini, e il parametro capitario di finanziamento da assicurare alle regioni e alle province autonome per l'organizzazione di detta assistenza, in coerenza con le risorse stabilite dalla legge finanziaria". Questa totale delegificazione contrasta col principio di legalita' sostanziale e si traduce in uno strumento di lesione dell'autonomia delle regioni. Infatti se il Governo puo' liberamente determinare col piano i livelli di assistenza e le prestazioni che intende finanziare, e se le Regioni debbono sopportare per intero i costi ulteriori, queste potrebbero dover fronteggiare oneri insopportabili per garantire il diritto alla salute dei cittadini, senza da un lato disporre dei mezzi necessari, ne' dall'altro lato disporre dei poteri necessari per incidere sui piu' consistenti fattori di spesa (si pensi agli oneri per il personale, che continuerebbero ad essere determinati per intero da norme e da contratti nazionali). Nella sentenza n. 245/1984 questa Corte ha affermato che "la parte essenziale della spesa sanitaria ed ospedaliera non puo' non gravare sullo Stato .. per l'evidente ragione che il diritto alla salute spetta egualmente a tutti i cittadini e va salvaguardato sull'intero territorio nazionale"; che "non e' pertanto casuale che la spesa in questione sia prevalentemente rigida e non si presti a venire manovrata, in qualche misura, se non dagli organi centrali di Governo"; che "l'esigenza di pari trattamento, sottesa all'intera riforma sanitaria" spiega il fatto che le regioni non possano incidere sulle voci piu' rilevanti della spesa sanitaria, e che "per non violare l'eguaglianza dei cittadini nei confronti del Servizio" la stessa sfera di operativita' delle norme che riconoscono alle regioni il potere di stabilire quote di partecipazione degli assistiti al costo della prestazione "dev'essere .. ridotta ai minimi termini", mentre "e' soltanto lo Stato che dispone, ancora una volta, della potesta' di circoscrivere in tal senso la spesa" (n. 11 del considerato in diritto). Si puo' forse anche dissentire da una visione cosi' rigidamente centralizzatrice del sistema sanitario. Ma cio' che e' certo e' che contraddice pienamente con i criteri enunciati dalla Corte e con le garanzie costituzionali dell'autonomia, oltre che con i criteri della delega, un sistema che realizza una totale delegiferazione delle prestazioni, con attribuzione al Governo del potere di determinarle liberamente, e contemporaneamente mantiene una analitica desciplina statale e uno stringente controllo dello Stato su tutti gli elementi significativi dell'organizzazione e dell'attivita' sanitaria, e dunque su tutti i fattori della spesa sanitaria. Si noti, del resto, che un analogo e anche piu' grave effetto di "delegificazione" deriva dall'art. 9 del decreto, che, disciplinando le cosi' dette "forme differenziate di assistenza", e in particolare l'affidamento a soggetti singoli o consortili, ivi comprese le mutue volontarie, della facolta' di negoziare con gli erogatori delle prestazioni modalita' e condizioni, affida ad un decreto del Ministro della sanita' la determinazione delle quote di risorse destinabili per la gestione di tali forme e la fissazione dei requisiti dei soggetti e dei criteri per il trasferimento delle quote (secondo comma): cosi' rimettendo nelle mani del Ministro addirittura la struttura essenziale del Servizio sanitario nazionale. Vero e' che l'art. 1 del d.lgs. n. 502/1992 prevede che il piano sanitario nazionale sia adottato d'intesa con la Conferenza Stato- regioni: ma questa intesa, se non e' mera lustra, e' comunque del tutto inidonea a garantire le regioni dal rischio ora delineato, in quanto e' previsto (conformemente a quanto disposto dall'art. 1, lett. c), della legge di delega, la quale pero' non prevede l'attribuzione al piano della totale discrezionalita' in tema di definizione delle prestazioni (che ove l'intesa non intervenga entro trenta giorni dalla presentazione dell'atto, il Governo provvede direttamente (art. 1, primo comma, ultimo periodo, del d.lgs. n. 502/1992). 4. - Per connessione di argomento, si esporranno ora le censure relative agli artt. 12 e 13 del decreto, relativi rispettivamente al "fondo sanitario nazionale" e all'"autofinanziamento regionale". Il fondo sanitario nazionale di parte corrente continua ad essere determinato nel suo importo annuale dalla legge finanziaria, "tenendo conto ... dell'importo complessivo presunto dei contributi di malattia attribuiti direttamente alle regioni" ai sensi dell'art. 11 (art. 12, primo comma). Di fatto quindi il fondo andra' ad integrare le risorse che a ciascuna regione proverranno dall'attribuzione del gettito localmente riscosso dei contributi sanitari. Il riparto avviene attribuendo alle regioni, in relazione alla popolazione, una quota capitaria di finanziamento "determinata sulla base di coefficienti parametrici, in relazione ai livelli uniformi di prestazioni sanitarie in tutto il territorio nazionale, determinati ai sensi dell'art. 1", tenendo conto di una serie di elementi e con quote di riequilibrio (art. 12, terzo e quarto comma). Le quote assegnate alle regioni ordinarie confluiscono in sede regionale nel fondo comune di cui all'art. 8 della legge n. 281/1970 "come parte indistinta", ma resta fermo il vincolo di destinazione "esclusivamente per finanziare attivita' sanitarie" (e dunque non si trattera' in realta' di una "parte indistinta" del fondo comune) (art. 12, quinto comma). Poiche', come si e' visto, i livelli uniformi di prestazioni sanitarie non sono nemmeno in parte determinati dal decreto delegato (come invece richiedeva la legge di delega, all'art. 1, primo comma, lett. g)), ma verranno definiti liberamente dal piano sanitario nazionale, cioe' dal Governo, in relazione alle "risorse a disposizione" (art. 1, primo comma, e quarto comma, lett. b)), ne discende che il finanziamento attraverso il fondo sanitario nazionale sara' determinato in modo totalmente discrezionale dall'esecutivo centrale, senza che siano apprestate idonee garanzie di effettiva copertura dei costi delle prestazioni e tanto meno degli oneri di mantenimento delle strutture pubbliche esistenti. Da un lato, dunque, la misura effettiva di soddisfacimento del diritto costituzionale alla salute resta, per quanto riguarda il finanziamento statale, del tutto aleatoria e affidata alle determinazioni del Governo, dall'altro lato - cio' che qui piu' direttamente rileva - rimane affidato alle determinazioni del Governo, al di fuori di qualsiasi criterio legislativamente fissato, il livello di finanziamento delle strutture e dei servizi attribuiti alla responsabilita' delle regioni e delle aziende da loro dipendenti. Se nel sistema previgente, in cui le U.S.L. erano configurate come "strutture operative dei comuni" (art. 15, primo comma, legge n. 833/1978), in linea di principio la responsabilita' finanziaria del servizio gravava sulle regioni solo nei limiti della quota di fondo sanitario loro attribuita, e per il resto restava in definitiva responsabile lo Stato, nel nuovo sistema viceversa, divenute le U.S.L. enti strumentali delle regioni (art. 3, primo comma, del decreto legislativo impugnato), la responsabilita' finanziaria dei relativi costi viene interamente addossata alla regione. E infatti l'art. 13 del decreto esplicitamente stabilisce che le regione "fanno fronte con risorse proprie" non solo "agli effetti finanziari conseguenti all'erogazione di livelli di assistenza sanitaria superiori a quelli uniformi di cui all'art. 1" e "all'adozione di modelli organizzativi diversi da quelli assunti come base per la determinazione dei parametri capitari di finanziamento di cui al medesimo art. 1", ma anche "agli eventuali disavanzi di gestione delle unita' sanitarie locali e delle aziende ospedaliere con conseguente esonero di interventi finanziari da parte dello Stato" (art. 13, primo comma). Ora, poiche' il gettito dei contributi attribuiti alle regioni e' riconosciuto come insufficiente a sostenere i costi del servizio, e poiche' l'entita' del finanzimento statale ulteriore, attraverso il riparto del fondo sanitario nazionale, viene determinata dall'esecutivo centrale, come si e' visto, con totale discrezionalita', senza vincoli o criteri di legge, cio' comporta che l'autonomia finanziaria delle regioni e la loro effettiva possibilita' di fronteggiare gli oneri vengono messe completamente alla merce' delle decisioni del Governo, senza garanzia alcuna di effettiva corrispondenza dei finanziamenti ai costi reali del servizio. A cio' peraltro - si badi - non fa riscontro, come ci si sarebbe attesi, un piu' ampio riconoscimento alle regioni di potesta' di disciplina e di governo del settore. Al contrario, la disciplina normativa delle U.S.L. e' quella stringente recata dalle norme statali; la disciplina del personale dipendente resta interamente di pertinenza della legge statale e del contratto nazionale; parimenti resta affidata ad accordi nazionali e a un decreto del Ministro la regolamentazione dei rapporti con i professionisti non dipendenti (art. 8, quinto e sesto comma), lo Stato si riserva di definire in modo vincolante i livelli di assistenza (art. 1, quarto comma, lett. b)), i requisiti strutturali e organizzativi per l'esercizio delle attivita' nelle strutture pubbliche e private (art. 8, quarto comma); il Ministro stabilisce gli indicatori di qualita' e di efficienza di servizi, nonche' le modalita' del loro utilizzo (art. 10, terzo comma; art. 14, primo comma). E' evidente la contraddizione insita in questo sistema: di fatto lo Stato intende liberarsi della responsabilita' per quella "parte essenziale della spesa sanitaria ed ospedaliera" che viceversa "non puo' non gravare sullo Stato" secondo la netta affermazione della sentenza n. 245/1984 di questa Corte, senza pero' rinunciare a mantenere la competenza a disciplinare tutti gli aspetti del servizio e tutti i fattori della spesa. Il tutto senza alcuna garanzia per le regioni, data la rilevata "delegificazione" del sistema delle prestazioni e l'attribuzione alla piena discrezionalita' degli organi governativi del potere di stabilire livelli di assistenza e parametri di finanziamento: con violazione palese anche del principio di legalita' sostanziale. Ne' varrebbe osservare il contrario che alle regioni viene attribuita una possibilita' di "autofinanziamento" ai sensi dell'art. 13, secondo e terzo comma, del decreto. Infatti da un lato le misure adottabili dalle regioni, riduzione dei limiti massimi di spesa per gli esenti, aumento della quota fissa sulle prescrizioni farmaceutiche e sulle ricette relative a prestazioni sanitarie, forme di partecipazione alla spesa per eventuali altre prestazioni (ma "nel rispetto dei principi del .. decreto": art. 13, secondo comma) sono palesemente insufficienti a consentire ampi margini di manovra, e d'altronde non possono essere utilizzate se non nell'ambito di un sfera che "per non violare l'eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio, .. deve essere, invero, ridotta ai minimi termini", come si esprimeva la sentenza n. 245/1984 di questa Corte. Dall'altro lato la previsione della possibilita' di aumentare i contributi "entro il limite del sei per cento" o i tributi regionali entro il limite del 75% (art. 1, primo comma, lett. i), legge n. 421/1992, come modificato dall'art. 8, secondo comma, della legge n. 498/1992) appare del tutto insufficiente, ove si pensi al ruolo quantitativamente e qualitativamente del tutto modesto e marginale ancora oggi riconosciuto alla potesta' impositiva autonoma delle regioni. Queste ultime, insomma, rischiano di essere schiacciate fra le tenaglie di costi ineludibili e incomprimibili in relazione ad una disciplina del servizio ancora quasi esclusivamente statale, e di entrate insufficienti discrezionalmente assegnate dallo Stato. In particolare, appare inaccettabile e lesiva dell'autonomia la disposizione per cui le regioni dovrebbero far fronte con risorse proprie agli "eventuali disavanzi di gestione delle unita' sanitarie locali e delle aziende ospedaliere con conseguente esonero di interventi finanziari da parte dello Stato" (art. 13, primo comma), senza che si distingua in alcun modo fra disavanzi o quote di disavanzo derivanti da fattori controllabili e governabili da parte delle aziende sanitarie e delle regioni, e disavanzi o quote di disavanzo derivanti da fattori interamente governati dagli organi centrali o con strumenti di carattere nazionale. 5. - Sempre nell'ambito della disciplina del finanziamento, merita censura la disposizione dell'art. 12, secondo comma, n. 2, dove si prevede che la quota dell'1% del Fondo sanitario nazionale complessivo (quindi comprensivo, par di capire, anche del gettito dei contributi), riservata al Ministero della sanita', possa essere utilizzata anche per "iniziative centrali previste da leggi nazionali riguardanti programmi speciali di interesse e rilievo interregionale o nazionale per ricerche o sperimentazioni attinenti gli aspetti gestionali, la valutazione dei servizi, le tematiche della comunicazione e dei rapporti con i cittadini, le tecnologie e biotecnologie sanitarie". Tale disposizione, da un lato, prefigura un'attivita' di spesa diretta, di gestione e di amministrazione attribuita allo Stato, eccedente i compiti, riservati allo Stato stesso, di "programmazione sanitaria nazionale" e di "determinazione di livelli uniformi di assistenza sanitaria e delle relative quote capitarie di finanziamento" (art. 1, primo comma, lett. c), della legge n. 421/1992), e invasiva dell'ambito delle competenze regionali. Dall'altro lato essa e' specificamente contrastante con l'art. 1, primo comma, lett. t), della legge di delega, ove si prevede che una quota del Fondo sia destinata "ad attivita' di ricerca medica finalizzata, alle attivita' di ricerca di istituti di rilievo nazionale, riconosciuti come tali dalla normativa vigente in materia, dell'Istituto superiore di sanita' e dell'Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (ISPESL), nonche' ad iniziative centrali previste da leggi nazionali riguardanti programmi speciali di interesse e rilievo interregionale o nazionale". In particolare non rientrano in tali limiti le "sperimentazioni attinenti gli aspetti gestionali, la valutazione dei servizi, le tematiche della comunicazione e dei rapporti con i cittadini", essendo evidente che sotto la generica etichetta di "sperimentazione" nel campo gestionale troverebbe facile ingresso ogni forma di attivita' di gestione e quindi di vera e propria attivita' di assistenza sanitaria, strettamente pertinente alla competenza regionale (si veda anche l'art. 9, primo e quarto comma, del decreto). Il Ministero della sanita' non rinuncia, insomma, ad allargare la propria attivita' al di la' dei compiti di indirizzo e di programmazione generale che ad esso dovrebbero spettare. 6. - L'art. 3 del decreto disciplina la "organizzazione delle unita' sanitarie locali". Mentre l'art. 1, primo comma, della legge di delega prevedeva che il provvedimento delegato si limitasse a "definire i principi organizzativi delle unita' sanitarie locali" (lett. d)), nonche' "i principi relativi ai poteri di gestione spettanti al direttore generale" (lett. f)), e mentre la competenza in materia di "programmazione e organizzazione" dell'assistenza sanitaria doveva essere attribuita alle regioni ((art. 1, primo comma, lett. c)), l'art. 3 del decreto contiene una disciplina estremamente dettagliata e minuziosa di tutta l'organizzazione delle "aziende" sanitarie, pur esplicitamente configurate come enti strumentali della regione. Cosi' non ci si limita a prevedere come organi della U.S.L. il e il collegio dei revisori e il direttore generale, coadiuvato da un direttore amministrativo e da un direttore sanitario, e assistito per le attivita' sanitarie da un consiglio dei sanitari (secondo la gia' analitica previsione dell'art. 1, primo comma, lett. d), della legge di delega), ma per ciascuna delle figure organizzative previste si detta una disciplina minuziosa e del tutto esaustiva: a) per il direttore generale si disciplinano puntualmente le modalita' di nomina (sesto comma, primo periodo) nell'ambito dell'elenco nazionale interamente disciplinato e gestito dallo Stato (decimo comma); le ineleggibilita' e le incompatibilita' (nono e undicesimo comma); i caratteri e la durata del rapporto di lavoro (sesto comma, secondo periodo), demandando addirittura ad un decreto del Presidente del Consiglio la fissazione dei "contenuti" del relativo contratto "di diritto privato", "ivi compresi i criteri per la determinazione degli emolumenti" (con buona pace dei criteri "privatistici" di managerialita' e di ricorso al mercato) (sesto comma, secondo periodo); la sostituzione in caso di vacanza, assenza o impedimento, nonche' i casi di risoluzione del contratto (sesto comma, terzo periodo), e addirittura gli obblighi di motivazione dei provvedimenti da esso adottati (sesto comma, terzo periodo). Al direttore generale son poi attribuiti "tutti i poteri di gestione, nonche' la rappresentanza dell'unita' sanitaria locale", laddove l'art. 1, primo comma, della legge di delega prescrivendo che le U.S.L. abbiano "propri organi di gestione" (lett. d)), e imponendo di definire "i principi relativi ai poteri di gestione spettanti al direttore generale" (lett. f)), sembra presupporre una pluralita' di organi di gestione e una distribuzione dei relativi poteri; b) per i direttori amministrativo e sanitario si prevedono pure le modalita' di assunzione, la disciplina del rapporto di lavoro (anche qui con attribuzione al Presidente del Consiglio del potere di fissare i "contenuti" del contratto), le ipotesi di sospensione, decadenza, cessazione dall'incarico, riconferma (settimo comma, primo periodo), i requisiti positivi e negativi per la nomina (settimo comma, secondo periodo e undicesimo comma), il collocamento in aspettativa se pubblici dipendenti (ottavo comma), le specifiche funzioni (settimo comma, secondo periodo); c) per il Consiglio dei sanitari sono regolate la composizione, le funzioni, e perfino le modalita' e i termini per l'espressione dei relativi pareri (dodicesimo comma); d) per cio' che riguarda il collegio dei revisori - organo di controllo, si basi, di quello che viene definito un ente strumentale della regione - non solo si prevedono analiticamente composizione, modalita' di nomina, requisiti, durata in carica, sostituzioni, compensi, funzioni e modalita' di esercizio delle stesse (tredicesimo comma), ma addirittura si prevede, da un lato, che su tre membri uno solo sia designato dalla regione (o due nelle unita' sanitarie locali di dimensioni maggiori), e dall'altro lato che la regione non intervenga nel procedimento di nomina, riservato al direttore generale (sempre tredicesimo comma); e) anche, infine, per quanto riguarda i compiti demandati ai sindaci o ai presidenti di circoscrizione in ordine agli indirizzi per l'impostazione dell'attivita' della U.S.L., il decreto si spinge fino a prevedere il numero dei componenti della relativa rappresentanza nelle U.S.L. il cui ambito territoriale non coincide col territorio del comune (quattordicesimo comma). Onde, in definitiva, la potesta' riconosciuta alle regioni di disciplinare "le modalita' organizzative e di funzionamento delle unita' sanitarie locali" si riduce di fatto a quasi nulla; in pratica, spetta alle regioni solo identificare formalmente l'assetto territoriale delle U.S.L., col vincolo pero' di doverne prevedere la riduzione, e di farne coincidere di norma l'ambito territoriale con quelle delle province (quinto comma, lett. a)), e disciplinare il passaggio delle vecchie alle nuove U.S.L. (quinto comma, lett. c)). Ne' le analitiche norme poste dal decreto possono facilmente ravvisarsi come norme di dettaglio cedevoli nei confronti della successiva legislazione regionale, poiche' nulla nel decreto e' detto in tal senso, mentre nella legge di delega, sia pure con riguardo alla diversa materia del pubblico impiego, si trova la singolare statuizione secondo cui non solo le disposizioni della legge di delega stessa, ma altresi' quelle dei decreti legislativi, costituirebbero "principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 della Costituzione" (art. 2, secondo comma). In ogni caso, sull'eventuale carattere cedevole e suppletivo delle norme del decreto sarebbe massimamente opportuna una autorevole pronuncia della Corte. Con riguardo al collegio dei revisori (tredicesimo comma) e' poi palesemente illegittima, perche' contrastante con criteri della delega e lesiva dell'autonomia regionale, la disposizione secondo cui ove il direttore generale non proceda entro trenta giorni alla ricostituzione del collegio cessato o decaduto "il Ministro della sanita', su segnalazione del commissario del Governo, provvede a costituirlo in via straordinaria con due funzionari designati dal Ministro del tesoro e un funzionario designato dal predetto commissario del Governo". Siffatto potere sostitutivo in capo al Ministro e al commissario del Goveno contrasta in particolare con il criterio fissato nell'art. 1, lett. n), della legge di delega, secondo cui si doveva prevedere che in caso di inadempimento da parte delle regioni (ma lo stesso non puo' non valere anche per inadempienze da parte degli organi di quello che viene configurato come un ente strumentale delle regioni) sia il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della sanita' (e non quest'ultimo), e previa diffida, a disporre il compimento degli atti relativi in sostituzione delle amministrazioni competenti. 7. - L'art. 4 del decreto, concernente le aziende ospedaliere e i presidi ospedalieri, appare lesivo dell'autonomia regionale anzitutto la' dove stabilisce che alla individuazione degli ospedali da costituire in azienda ospedaliera provveda il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della sanita'. Si prevede bensi' che tale individuazione avvenga "sulla base delle indicazioni pervenute dalla regione" (primo comma: peraltro, in mancanza, il Ministro formula senz'altro le sue proposte), ma "sulla base" non significa "in conformita'" a dette indicazioni. Cosi' che e' facilmente prevedibile che alcuni ospedali possano cercare di ottenere direttamente dal Governo lo status di azienda ospedaliera, aggirando la programmazione regionale. Per di piu' si prevede, con norma che si pone in aperta contraddizione con la legge di delega (primo comma, lett. n)) e con la stessa previsione nel decreto delegato di precisi requisti degli ospedali da costituire in aziende (che devono essere ospedali di rilievo nazionale e di alta specializzazione, o ospedali destinati a centro di riferimento della rete dei servizi di emergenza), che "con le stesse procedure (quali? quella 'governativa' o quella regionale?)" si provvede alla costituzione in azienda di "ulteriori ospedali, dopo la prima attuazione" del decreto medesimo, senza dettare nemmeno alcun criterio in proposito. In tal modo si apre la strada ad un indiscriminato scorporo degli ospedali di ogni dimensione dalla struttura gestionale complessiva del servizio sanitario. Parimenti contrasta con i criteri della delega la previsione secondo cui "sono ospedali di rilievo nazionale e di alta specializzazione .. i presidi ospedalieri in cui insiste la prevalenza del rapporto formativo del triennio clinico della facolta' di medicina e chirurgia e, a richiesta dell'universita', i presidi ospedalieri che operano in struture di pertinenza dell'universita'" (terzo comma: cfr. anche sesto comma). Infatti l'art. 1, primo comma, lett. n), della legge di delega prevede l'attribuzione della autonomia aziendale solo ai "policlinici universitari", non ad ogni presidio ospedaliero anche minore che per qualsiasi ragione abbia a che fare con l'universita' o con l'attivita' didattica, circostanza questa, evidentemente insufficiente a trasformarlo in ospedale "di rilievo nazionale e di alta specializzazione"; e non prevede affatto che la costituzione delle aziende ospedaliere possa avvenire "a richiesta dell'universita'". Per di piu' il sesto comma dell'art. 4 dispone che nelle aziende ospedaliere ove insiste la prevalenza del corso formativo del triennio clinico, il direttore generale sia nominato "d'intesa con il rettore dell'Universita'": ancora una volta in contrasto con la delega e in violazione dell'autonomia della regione. Rispetto alla organizzazione delle nuove aziende ospedaliere, agli organi e alle rispettive attribuzioni, si applica la stessa normativa prevista per l'unita' sanitaria locale (primo comma), e valgono dunque le stesse censure gia' svolte riguardo all'art. 3. Inoltre l'ottavo comma, seconda parte, del medesimo art. 4 prevede che "il verificarsi di ingiustificati disavanzi di gestione o la perdita delle caratteristiche strutturali e di attivita' prescritte, fatta salva l'autonomia dell'universita', comportano rispettivamente il commissariamento da parte della giunta regionale e la revoca dell'autonomia aziendale". Mentre per quest'ultimo provvedimento non si specifica chi sia competente ad adottarlo, per l'adozione del commissariamento si fa riferimento ad uno specifico organo regionale - la giunta - cosi' violando l'autonomia organizzativa della regione. Infine il decimo comma, secondo periodo, dell'art. 4 detta una minuziosissima disciplina - a sua volta lesiva dell'autonomia regionale - circa l'obbligo di riservare negli ospedali (in tutti, non solo in quelli costituiti in aziende) da un lato spazi per l'esercizio della professione intramuraria, dall'altro lato "una quota non inferiore al 6% e non superiore al 12% dei posti letto per la istituzione di camere a pagamento", dettando altresi' norme su compensi a carico dei ricoverati. 8. - L'art. 6 del decreto, dedicato ai rapporti tra Servizio sanitario nazionale ed universita', contiene a sua volta alcune previsioni illegittime e lesive dell'autonomia regionale. Mentre l'art. 1, primo comma, lett. o), della legge di delega stabilisce che l'apporto all'attivita' assistenziale delle facolta' di medicina deve essere regolato "secondo le modalita' stabilite dalla programmazione regionale in analogia con quanto previsto, anche in termini di finanziamento, per le strutture ospedaliere", l'art. 6, primo comma, del decreto stabilisce che "le universita' contribuiscono, per quanto di competenza, alla elaborazione dei piani sanitari regionali", sembrando cosi' configurare una impropria competenza concorrente delle universita' nella programmazione dell'assistenza sanitaria. Il terzo comma dell'art. 6, poi, sembra sottrarre la formazione del personale sanitario infermieristico alla competenza delle regioni (cui certamente essa spetta, anche sotto il titolo dell'istruzione professionale) per configurare tale attivita' nell'ambito dell'istruzione universitaria, pur ribadendo che la formazione di detto personale "avviene in sede ospedaliera". Si prevede infatti che l'ordinamento didattico sia definito con decreti interministeriali, ai sensi dell'art. 9 della legge n. 341/1990, che regola appunto l'ordinamento dei corsi di diploma universitario, di laurea e di specializzazione; e prevede il rilascio dei diplomi a firma del responsabile delle "predette scuole" (?) e del rettore dell'universita' competente. Nessuna traccia di cio' si rinviene nella legge di delega, che si limita a prevedere la regolamentazione del "rapporto tra Servizio sanitario nazionale ed universita' per la formazione in ambito ospedaliero del personale sanitario e per le specializzazioni post- laurea" (art. 1, primo comma, lett. o)). Il quarto comma dell'art. 6 del decreto introduce un'altra ipotesi di potere sostitutivo del Ministro della sanita', in questo caso congiuntamente al Ministro dell'universita', ai fini della stipulazione dei protocolli d'intesa con le universita' che le regioni non abbiano stipulato: in contrasto con l'art. 1, primo comma, lett. n), della legge di delega, che prevede solo poteri sostitutivi esercitati dal Consiglio dei Ministri. Infine lo stesso quarto comma dell'art. 6, nella parte finale, attribuendo ai Ministri della sanita' e dell'universita', congiuntamente, il potere di fornire "gli indirizzi per la corretta applicazione degli accordi", configura, a quanto sembra, una anomala potesta' di indirizzo in capo ai Ministri, senza alcuna statuizione dei criteri legislativi e dunque con violazione del principio di legalita' sostanziale e lesione dell'autonomia regionale. 9. - L'art. 7 del decreto disciplina i "presidi multizonali di prevenzione". Mentre secondo la legge di delega si dovevano "definire i principi ed i criteri per la riorganizzazione, da parte delle regioni e province autonome, su base dipartimentale, dei presidi multizonali di prevenzione" (art. 1, primo comma, lett. s), della legge n. 421/1992), l'art. 7 del decreto esordisce stabilendo che "la legge regionale attribuisce la gestione dei presidi multizonali di prevenzione ad un apposito organismo per la prevenzione, unico per tutto il territorio regionale, costituito secondo i principi di cui all'art. 3, primo comma, e nei termini di cui al quinto comma dello stesso articolo". Si prevede dunque, senza alcuna base nella delega, un nuovo organismo aziendale, con direttore generale, direttore sanitario (denominato nelle specie direttore tecnico sanitario), direttore amministrativo, consiglio dei sanitari (denominato consiglio dei sanitari e dei tecnici). A tale organismo o azienda e' affidata la "gestione" di tutti i presidi multizonali di prevenzione della regione, riorganizzati di norma su base provinciale (secondo comma, lett. a)). Tale previsione non solo e' del tutto illegittima, lesiva della competenza e dell'autonomia regionale, e contrastante con i criteri della delega, ma si appalesa a prima vista illogica: imporre un unico organismo regionale di gestione, sia per le Regioni piu' piccole, sia per quelli maggiori, con milioni di abitanti e numerose Province, e' evidentemente incongruo. In ogni caso, mentre i presidi multizonali di prevenzione sono configurati dall'art. 22 della legge n. 833/1978 come presidi dell'unita' sanitaria locale nel cui ambito territoriale sono ubicati, e mentre la legge di delega, come si e' ricordato, si limita a prevederne la riorganizzazione ad opera della regione, il decreto istituisce un quid nuvum, un organismo regionale unico di gestione dei presidi, costituito a sua volta in azienda autonoma, e destinato, se ben s'intende, a sostituirsi nei compiti oggi spettanti alla regione e alle unita' sanitarie locali; oltrettutto prevedendo una gestione unitaria, tecnica e amministrativa, a livello regionale che, specie nelle regioni maggiori, e' destinata a rivelarsi impraticabile. Inoltre il quarto comma dell'art. 7 prevede "attivita' di indirizzo e coordinamento necessarie per assicurare la uniforme attuazione delle normative comunitarie e degli organismi internazionali", assicurate "congiuntamente dal Ministero della sanita' e del Ministero dell'ambiente" che si avvalgono di vari istituti. Anche la previsione di tale attivita' di indirizzo e coordinamento, priva di ogni base nella legge di delega e non accompagnata da alcun criterio per il suo esercizio, e' lesiva dell'autonomia regionale e del principio di legalita' sostanziale. 10. - L'art. 8 del decreto, che disciplina i "rapporti per l'erogazione delle prestazioni assistenziali", prevede anzitutto che il rapporto tra servizio sanitario nazionale e medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, farmacie, sia regolato da convenzioni triennali conformi agli accordi collettivi nazionali (primo e secondo comma). Per quanto riguarda le prestazioni specialistiche, esse saranno erogate, oltre che dalle strutture pubbliche, da professionisti con i quali la U.S.L. "intrattiene appositi rapporti fondati sulla corresponsione di un corrispettivo predeterminato a fronte della prestazione" (terzo comma). In tutto questo sistema lo spazio per la programmazione regionale sembra del tutto assente. Per di piu' il sesto comma demanda ad un decreto del Ministro della sanita' la statuizione dei criteri generali per la fissazione delle tariffe delle prestazioni specialistiche erogate in forma diretta. E' vero che detto decreto dovrebbe essere emanato d'intesa con la conferenza Stato-regioni, ma e' previsto altresi' che, ove l'intesa non intervenga entro trenta giorni dal riconoscimento della richiesta, "il Ministro della sanita' provvede direttamente". Ancora una volta una sorta di potere sostitutivo e' riconosciuto dunque al Ministro, senza alcuna garanzia procedimentale, in contrasto anche con quanto disposto dall'art. 1, primo comma, lett. n), della legge di delega. A sua volta il quarto comma dell'art. 8 prevede che con atto di indirizzo e coordinamento siano definiti i requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi minimi richiesti per l'esercizio delle attivita' sanitarie e la periodicita' dei controlli sulla permanenza dei requisiti stessi, per cio' che rigurda le istituzioni sanitarie di carattere privato, ma con disciplina che "si applica anche alle corrispondenti strutture pubbliche". Anche la previsione di tale potere di indirizzo e coordinamento, non vincolato all'osservanza di criteri legislativamente fissati, appare lesiva dell'autonomia regionale e del principio di legalita' sostanziale. E' ben vero che si prevede che l'atto sia emanato d'intesa con la conferenza Stato-regioni. Ma l'intervento della Conferenza non puo' valere da solo a garantire l'autonomia della regione, ne' a coprire la mancanza di criteri sostanziali legislativamente stabiliti: tanto piu' se si dovesse ritenere applicabile anche a questa ipotesi la previsione dell'art. 1, primo comma, lett. c), della legge di delega secondo cui, ove l'intesa con la conferenza non intervenga entro trenta giorni, il Governo provvede direttamente (col che, come e' evidente, la stessa previsione dell'intesa diventerebbe una mera lustra). 11. - L'art. 10 del decreto ("controllo di qualita'") prevede al secondo comma che "con decreto del Ministro della sanita', d'intesa con la conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome e sentite la Federazione nazionale degli ordini di medici e degli odontoiatri e degli altri ordini e collegi competenti, sono stabiliti i contenuti e le modalita' di utilizzo degli indicatori di efficienza e di qualita''". L'importanza di tali indicatori e' evidente, se si tiene conto che essi possono diventare di fatto criteri vincolanti per la programmazione e il finanziamento dei servizi. Anche in questo caso la potesta' di definire gli indicatori e' attribuita al Ministro senza alcuna statuizione di criteri, e dunque senza sufficiente base legislativa. Ne' puo' bastare, per le regioni poc'anzi dette, la prevista intesa con la conferenza (che peraltro non puo' sostituire l'esercizio dell'autonomia delle singole regioni), specie se si dovesse ritenere applicabile anche a questa ipotesi la previsione dell'art. 1, primo comma, lett. c), della legge delega, secondo cui ove l'intesa con la Conferenza non intervenga entro trenta giorni il Governo provvede direttamente. 12. - Analoghe censure merita l'art. 14, primo comma, del decreto, il quale attribuisce al Ministro della sanita', sentita la conferenza Stato-regioni (stavolta dunque senza nemmeno il vincolo dell'intesa) il potere di definire con proprio decreto "un sistema di indicatori di qualita' dei servizi e delle prestazioni sanitarie relativamente alla personalizzazione ed umanizzazione dell'assistenza, al diritto all'informazione, alle prestazioni alberghiere, nonche' dell'andamento delle attivita' di prevenzione delle malattie". Tale sistema di indicatori deve essere utilizzato dalle regioni "per la verifica, anche sotto il profilo sociologico, dello stato di attuazione dei diritti dei cittadini, per la programmazione regionale, per la definizione degli investimenti di risorse umane, tecniche e finanziarie" (secondo comma). Ancora una volta si demanda al Ministro, senza criteri legislativamente fissati e senza base nella legge di delega (che si limita a prevedere la definizione dei "principi per garantire i diritti dei cittadini": art. 1, primo comma, lett. r), della legge n. 421/1992), un'attivita' sostanzialmente di indirizzo e coordinamento, lesiva dell'autonomia regionale.